Cronologia degli eventi

lunedì 1 agosto 2011

Gli Yankee in Africa

Con un grande spiegamento di forze si apre il secondo fronte nell'Africa Settentrionale. Roosevelt ha deciso di dare il suo appoggio agli alleati europei invece di concentrare i propri sforzi nella zona del Pacifico, dove gli stessi soldati americani hanno subito le perdite più forti. L'Operazione Torch non è stata predisposta nel modo migliore e viene ostacolata dai francesi.


Il 22 gennaio '43, festa di san Gaudenzio vescovo, il maresciallo d'Italia Emilio De Bono, seduto al tavolo di studio nella sua villa di Cassano d'Adda, nel Milanese, annotava sul diario: «Batoste, botte, la Tripolitania andata, legnate in Russia e... continua la grancassa dei successi. E si tace la tragedia, sempre con la convinzione che il popolo italiano, esaltato da chiacchiere demagogiche, sia composto di fessi! Ma che fare? Una rivolta nelle condizioni guerresche in cui siamo? Vedere di far mutare la rotta al Capo? Non è neppure da pensare. Andare alla deriva?». L'indomani, 23 gennaio, il maresciallo aggiungeva: «Tripoli è caduta ieri. Il popolo? Il popolo subisce! Ecco il caso di fare una dimostrazione ostile sotto Palazzo Venezia e una sotto il Quirinale. Ma ci hanno ridotto scemi, scemi del tutto. lo sono accasciato, desolato, furente. Voci di un colloquio di due ore che Badoglio avrebbe avuto col Re, e colloquio Federzoni-Grandi. Poveretti, poveretti noi! Anche in Russia ci abbiamo lasciato circa 70 mila uomini». Così De Bono -che esattamente di lì a un anno sarebbe stato fucilato nel forte di San Procolo a Verona assieme a Ciano e agli ex membri del Gran Consiglio condanhati a morte dalla repubblica di Salò -interpretava l'angoscia di un Paese ormai militarmente e politicamente allo sbando. Per noi e per i tedeschi, in terra d'Africa, comincia invero ad andare male. Il 4 novembre'42 (per ironia del destino è un anniversario di vittoria per gli italiani) a El Alamein le forze dell'Asse sono definitivamente travolte da Montgomery; negli stessi giorni si scatena 1'«0perazione Torch», il gigantesco sbarco anglo·americano in Marocco e in Algeria, da tempo programmato da Churchill e Roosevelt, in ossequio alla promessa fatta a Stalin di aprire entro il '42 un secondo fronte". Come in tutti gli sbarchi, anche per l'Operazione Torch l'ora X -le 23 del 7 novembre'42 -è dettata dagli esperti dell'ufficio meteorologico: una marea favorevole, di discreta durata, aiuterà le forze alleate a mettere piede sulle caste dell'Africa del Nord con i tre distaccamenti programmati, sotto il comando dei generali Patton (zona di Casablanca), Fredenhall (zona di arano) e Ryder (zona di Algeri). Si tratta, complessivamente, di un esercito di 110.000 uomini, tutti inglesi e americani, imbarcato su 290 navi: 73.000 soldati avranno come obiettivi Algeri, arano, Arzew, Castiglione, Sidi Ferruch e Capo Matifou; gli altri 36.000 dovranno invadere il Marocco attraverso Fedala, Casablanca, Safi e Port-Lyautey. Le operazioni cominciano puntualmente, conforme ai piani studati dagli Stati Maggiori Combinati. Quasi nello stesso istante, però, i sommergibili americani che hanno scortato i convogli dagli Stati Uniti attraverso l'Atlantico e si sono poi diretti nelle zone di operazioni stabilite, segnalano improvvise difficoltà per il settore del Marocco (generale Patton): le informazioni meteorologiche raccolte dai sottomarini fanno prevedere una forte risacca, con scirocco e probabili perturbazioni generali in aumento. C'è un rapido e drammatico consulto a Gibilterra nel comando operazioni. Eisenhower pensa di ritardare lo sbarco radunando nella rada sotto la rocca tutti i convogli nell'attesa che il tempo migliori. L'ammiraglio Henry H. Hewitt nella sua qualità di capo delle operazioni di sbarco -interviene dissentendo. Afferma che se si accetta il punto di vista di Eisenhower occorre dirottare a Gibilterra una vera e propria flotta di trasporti, cioè oltre 200 navi. «Creeremo una terribile confusione» dice Hewitt. «Bisogna andare avanti secondo il programma. Delle conseguenze mi assumo io la responsabilità». Ike acconsente; l'Operazione Torch procede. Hewitt ha visto giusto e la fortuna lo aiuta. Verso mezzanotte, il mare sulle coste marocchine si calma notevolmente, la luna sparisce dietro grandi banchi di nuvole cariche di pioggia. Il grande convoglio con le truppe di Patton può avanzare silenziosamente nel fresco buio -e su un mare completamente deserto -diretto al suo primo obiettivo. Sui piroscafi si preparano le scialuppe con i carri armati, i camion, l'artiglieria, i pezzi controcarro (che sono l'arma più potente di cui dispongano in questo momento gli americani) mentre gli uomini -quasi tutti giovani e giovanissimi e in larghissima parte sia ufficiali
subalterni sia soldati, novellini di operazioni del genere -prendono posto negli. zatteroni, silenziosi e immobili.
«Guardavamo la terra, io e i miei compagni» scrive il fante di marina Preston G. Derryl, 22 anni, di Detroit, Michigan e che cadrà in combattimento il 16 dicembre successivo «e cercavamo di scorgere una luce, un qualche segno di vita. Tutto era buio pesto e fondo, un buio così forte che ci sembrava pieno di minacce mortali». Invece è il buio di una tranquilla cittadina addormentata. Quando gli orologi di bordo segnano le 4.45 del mattino dell'8 novembre un triplice colpo di fischietto ordina, su ogni piroscafo, di calare le scialuppe in mare. Il viaggio verso i sei settori della costa africana nei quali lo sbarco è stato suddiviso dura esattamente mezz'ora durante la quale -da terra -non giunge nessun segno di allarme. Alle 5.15 un soldato americano che porta un nome famoso della storia patria, Thomas Jefferson, 22 anni, di Tallahassee, Florida, appartenente alla 3a Divisione fanteria, mette per primo il piede sulla spiaggia di Fedala. Deve trascorrere ancora un quarto d'ora prima che, dalla parte francese, si registri una reazione. Alle 6.05, infatti, la batteria del porto e quella di PontBlondin (armata, quest'ultima, da quattro moderni pezzi da 138 millimetri) aprono il fuoco verso il mare, benché la visibilità sia fortemente ostacolata dalla nebbia mattutina. A quanto si apprenderà più tardi, al comando delle batterie è giunta la segnalazione telefonica di «una flotta sconosciuta» presentatasi a due miglia dall'imboccatura del porto e che non ha risposto ai segnali in codice e i serventi hanno aperto il fuoco senza sapere esattamente quale nemico (se davvero è un nemico) abbiano di fronte. Lo sbarco, comunque, prosegue velocemente, rispettando quasi tutti i tempi indicati nei program· mi: invano un peschereccio francese, il Vìctoria, armato di mitragliatrici pesanti, tenta di speronare il cacciatorpediniera americano Hogan perché, alla distanza di 300 metri, viene colato a picco con una salva di cannonate che lo raggiunge all'altezza della linea di immersione. Anche a Port-Lyautey e a Safi le operazioni di sbarco sono portate rapidamente a termine benché, a differenza di Fedala, la reazione dei francesi qui sia più pronta e più decisa e si arrivi -per la prima e l'ultima volta in tutta la seconda guerra mondiale -a una vera e propria battaglia franco-americana per il Marocco: davanti a Casablanca, infatti, lo Jean-Bart, ch'è immobilizzato nel porto, alle 7 comincia a sparare sulla corazzata Massachusetts e un aereo da caccia francese, che tenta di intercettare un bombardiere americano, viene abbattuto dalla contraerea delle navi in rada. Anche a Orano i francesi resistono e rispondono prontamente allo sbarco: due incrociatori inglesi che trasportano fanteria americana -J'Hartlord e il Walney -sono affondati mentre stanno dirigendosi al porto; le vittimesono oltre duecento.
Soltanto ad Algeri, grazie anche alla cooperazione effettiva organizzata tra le autorità americane (Murphy) e il fronte clandestino francese, lo sbarco evita di tramutarsi in una tragedia. Tutte le perdite, dall'una e dall'altra parte, sono ridotte a pochi morti e feriti e al bombardamento prolungato dal cacciatorpediniere inglese Brooke che cercava di penetrare nella rada di Algeri (la nave, duramente colpita, finirà per affondare). Già nel pomeriggio alle 16, dopo un incontro col generale Ryder -dal quale i francesi sono stati accompagnati da un ufficiale inglese appena sbarcato, Randolph Churchill, figlio di Winston -si firma un armistizio locale. I combattimenti più duri -a Casablanca, a Safi, a Orano e a Port-Lyautey -durano ancora l'indomani, 9 novembre, e il giorno seguente, l0, quandosi raggiunge l'accordo per il cessate il-fuoco e Orano capitola mentre Casablancasta per essere bombardata. In tutta l'Operazione Torch non hanno avuto alcuna parte i Francesi Combattenti di de Gaulle. Addirittura, per esplicito desiderio di Roosevelt, Churchill non ha informato de Gaulle, neppure con pochi giorni di anticipo, dello sbarco che stava per avvenire. Il futuro presidente della Francia apprende ufficialmente dell'operazione in Africa del Nord soltanto a mezzogiorno dell'8 novembre. I seguaci di de Gaulle condannano lo sbarco in Nord Africa con termini di una durezza senza precedenti: «L'occupazione da parte dei nostri alleati americani di una terra a noi costata tanto sangue» scrive il giornale La Marseillaise, diffuso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, «colpisce il nostro paese più gravemente dell'occupazione hitleriana dei dipartimenti francesi, perché lo colpisce nell'onore». E Churchill
commenta: «Tutti noi dobbiamo portare una croce, io ho sulle spalle quella di Lorena».E chiaro che italiani e tedeschi si trovano ormai presi tra due fuochi: Montgomery che li insegue ricacciandoli vero so Tripoli e oltre; e le possenti forze di Eisenhower sbarcate in Marocco e in Algeria contro le quali i superstiti di El Alamein ben presto andranno a sbattere. Già dalla fme di novembre appare ~ vidente che Rommel intende fermarsi solo in Tunisia per giocarsi l'ultima carta. I 23 gennaio 1943 i primi carri armati «Valentine» dellVIII Armata inglese entrano in Tripoli rimasta senza difensori e il3 febbraio l'abbandono militare della ormai ex colonia italiana è completato. Una tragedia nel dramma: le fanùglie di italiani trasferiti nel Nord Africa a lavorare, a cercare fortuna, vedono crollare le loro speranze, svanisce il frutto di tante fatiche. Alla frontiera con la Tunisia vengono «congedati» i soldati indigeni. Il 5 febbraio si ha lo scioglimento formale del Comando Superiore della Libia, retto prima dal generale Gariboldi, poi dal maresciallo Bastico, e fonte di frequenti contrasti con Rommel, tanto che il capo di Stato Maggiore Generale, maresciallo Cavallero, è stato costretto ad accorrere più volte in Africa per placare il condotti~ ro tedesco il quale non gradisce gli ordini che -tranùte «Superlibia» -gli giungono dal Comando Supremo italiano. Nelle direttive da Roma c'è anche lo zampino del feldmaresciallo Kesserling, la cui giurisdizione si è estesa a tutte le forze tedesche operanti nel Nord Africa. Una parte del suo Stato Maggiore è distaccata presso il Comando Supremo italiano. Kesserling e Rommel si detestano e da questo fatto nascono ulteriori complicazioni. Nuova suprema autorità italiana in Tunisia diventa il generale Giovanni Messe (tornato in autunno dal fronte sovietico) che raggiunge l'Africa per riorganizzare le forze provenienti da El Alamein dopo una marcia di oltre 2500 chilometri: è il primo e resterà l'unico caso di divisioni tedesche agli ordini di un comandante italiano. Gli oltre centomila uomini organizzati nella Prima Armata si attestano sulla linea del Mareth, la «piccola Maginot africana» che i francesi avevano approntato prima della seconda guerra mondiale in previsione di un attacco italiano alla 'I\misia dalla Libia. Si tratta di una serie di modeste casematte e di altre attrezzature difensive poco efficienti,
anche perché abbandonate d9pO l'armistizio della Francia nel 1940. E una scelta che non piace né a Messe né a Rommel, entrambi timorosi che la posi· zione sia aggirabile da sud. Messe ha a disposizione sostanzialmente queste forze: cinque divisioni di fanteria italiana corazzata tedesca, il gruppo sa· hariano, reparti esplorativi e vari altri del genio e di artiglieria italiani e tedeschi; infme, di li a poco, la divisione «Centauro». Fra marzo e maggio '42, con le durissime battaglie del Mareth, di Abarut e di Enfidaville, le forze italo-tedesche sono messe alle corde dalla preponderanzadei mezzi alleati. A fme aprile crolla il settore della I armata tedesca e Messe e i suoi soldati, rimasti soli e accerchiati, continuano la resistenza fino in fondo convinti che ogni giorno guadagnato possa ritardare l'invasione della madrepatria. Se poi Mussolini non sa sfntttare nel modo migliore i duri sacrifici richiesti ai soldati, «è cosa -scrive Messe -che giudicherà la Storia». Mentre i tedeschi stanno arrendendosi, Messe fa sapere agli inglesi che gli italiani cesseranno di combattere solo se si concederà loro l'onore delle armi. Messaggio-radio britannico: «Dobbiamo intendere che respingete la resa incondizionata»? Risposta della I Armata italiana: «Sì». Alle 19,35 del 12 maggio 1943 il Comando Supremo italiano comunica a Messe: «Cessate il combattimento. Siete nominato maresciallo d'Italia. Onore a voi e ai vostri prodi. Firmato: Mussolini». Alle 12,30 del giorno successivo -presi i contatti con gli inglesi che non hanno fretta il maresciallo Messe annuncia in un ul· timo messaggio che ogni resistenza è cessata. Bottai, a Roma, pranzando con Farinacci e Ciano, dice esasperato: «In fondo è un'altra meta raggiunta. Mussolini nel 1911 pronunciò il "Via della Libia": dopo 32 anniè accontentato». il generale Patton, che ha il dono, come Mac Arthur e qualche altro stratega americano, di saper porre sempre in evidenza la sua forte personalità, si aggira tra le rovine di Cartagine e scruta il mare in direzione della Sicilia. Si seno te un nuovo Annibale, ma sceglierà la via più breve per spingere il suo esercito verso Roma.