Cronologia degli eventi

giovedì 27 gennaio 2011

La battaglia di capo Spada

Data: 19 luglio 1940.
Luogo: Mar Egeo, nei pressi di Capo Spada.
Eserciti contro: flotte Italiana e Inglese.
Contesto: seconda guerra mondiale.
Protagonisti:
Contrammiraglio Ferdinando Casardi, Comandante 2a divisione di incrociatori leggeri;
Capitano di Vascello Collins,
Comandante dell’incrociatore leggero Sydney;
Capitano di Vascello Umberto Novaro, Comandante dell’incrociatore leggero Bartolomeo Colleoni;
Capitano di Fregata Nicholson,
Comandante del cacciatorpediniere Hyperion.

La battaglia

Nel luglio 1940
Supermarina  il Comando Supremo della Marina italiana decise di dislocare alcune navi da guerra nella base di Lero, a Rodi, con l’intento di attaccare gli eventuali convogli inglesi in transito tra la l’Egitto e i Dardanelli. Per questo compito gli alti comandi italiani ritennero conveniente impiegare la 2a divisione incrociatori leggeri di stanza a Tripoli  il Bartolomeo Colleoni e il Giovanni dalle Bande Nere comandata dal Contrammiraglio Ferdinando Casardi.
Questa scelta venne dettata da diverse ragioni. Come le altre quattro unità gemelle che costituivano la classe Condottieri – Alberico da Barbiano, Alberto da Giussano, Armando Diaz e Raffaele Cadorna – i due incrociatori erano stati progettati per opporsi ai cacciatorpediniere, navi assai veloci ma poco armate e corazzate. Per ottenere una velocità piuttosto elevata, si era dovuto progettarli con un contenuto dislocamento: la corazzatura venne perciò ridotta ad appena 24 millimetri, permettendo una cospicua diminuzione del dislocamento – solamente 6.500 tonnellate – e un proporzionale aumento di velocità, che raggiunse il valore massimo di 37 nodi. L’armamento principale  8 cannoni da 152 millimetri e 4 tubi lanciasiluri – avrebbe consentito a queste unità di inseguire ed impegnare qualsiasi cacciatorpediniere nemico
tenendosi fuori dalla gittata dei suoi proietti, e nel contempo di sfuggire rapidamente ad unità pesantemente armate.
Progettati nel 1925 e varati nel 1930, erano gli incrociatori più vecchi della Regia Marina italiana: a causa della bassissima protezione erano scherzosamente chiamati incrociatori di carta Nel 1932 la corazzatura dovette essere portata a 32 millimetri affinché le navi non soffrissero eccessivamente i colpi di mare: aumentò così il tonnellaggio complessivo e la velocità venne di conseguenza diminuita. Grazie al ridotto dislocamento questi incrociatori consumavano poca nafta: nelle basi del Dodecaneso  difficilmente rifornibili dal lontano territorio metropolitano – era infatti necessario schierare unità che consumassero poco carburante. La scarsezza di combustibile condizionò la Marina italiana per tutta la durata del conflitto, portando al blocco quasi completo delle operazioni dall’estate del 1942.
Alle 21.00 del 17 luglio i due incrociatori salparono da Tripoli alla volta di Lero. Il giorno seguente uscì da Alessandria d’Egitto una formazione britannica diretta verso l’Egeo. Essa era costituita da due gruppi, comandati dal Capitano di Vascello Collins: il primo – agli ordini dello stesso Collins – comprendeva l’incrociatore leggero Sydney e il cacciatorpediniere Havock ed aveva il compito di perlustrare il Golfo di Atene; il secondo gruppo – al comando del Capitano di Fregata Nicholson – era formato dalla 2a flottiglia cacciatorpediniere – Hyperion, Ilex, Hero e Hasty – ed aveva l’ordine di compiere una ricognizione antisommergibile nelle acque fra l’isola di Caso e Creta, prima del passaggio di un convoglio britannico. Nella stessa giornata Supermarina ordinò al Comando Aereo di Rodi di effettuare ricognizioni aeree sul Canale di Cerigotto, dove sarebbero transitati i due incrociatori di Casardi, e di garantire alla formazione italiana la copertura aerea durante la traversata dell’Egeo. All’alba del 19 luglio la formazione italiana si trovava all’ingresso dell’Egeo, in navigazione a 25 nodi con rotta 75°.
I pochi ricognitori che avevano sorvolato quel tratto di mare per tutta la giornata precedente non avevano rilevato alcuna unità nemica, perciò il percorso fu ritenuto abbastanza sicuro. Alle 6.17 le vedette del Bande Nere scorsero all’orizzonte – controsole – i profili di quattro navi da guerra. Pochi minuti dopo esse vennero identificate come cacciatorpediniere britannici in rotta verso Sud-Ovest: le navi di Nicholson. Casardi decise di attaccare queste unità, veloci quanto i suoi incrociatori ma molto meno armate: aumentò la velocità fino a 30 nodi e accostò a sinistra, badando bene a tenersi fuori portata dell’artiglieria nemica, assai pericolosa per le sue deboli navi. Alle 6.27 il Colleoni e il Bande Nere aprirono il fuoco dalla distanza di 17.500 metri.
La flottiglia britannica venne colta di sorpresa: appena scorte le vampate delle salve italiane, Nicholson ordinò di ritirare gli apparati di scoperta antisommergibile, di invertire la rotta e di aumentare la velocità a 35 nodi per sfuggire al pericoloso cannoneggiamento. Comunicò subito dopo a Collins l’attacco da parte di due incrociatori italiani di classe Condottieri. Collins, che stava terminando la sua ricognizione 60 miglia a Nord-Est, non rispose al messaggio ma ordinò alle sue unità di invertire la rotta e di aumentare la velocità a 35 nodi: sua intenzione era di portare il più velocemente possibile le navi italiane sotto il fuoco del Sydney, mantenendo il silenzio radio per non scoprirsi al nemico. Casardi si lanciò all’inseguimento dei cacciatorpediniere di Nicholson: non aveva infatti motivo di ritenere inattendibili le rilevazioni aeree della giornata precedente, perciò non sospettava neppure lontanamente la presenza di un incrociatore britannico in quelle acque. D’altra parte catapultare gli idrovolanti imbarcati sugli incrociatori avrebbe costretto ad una forte riduzione di velocità, con il rischio di perdere il contatto con le unità nemiche.
Il cannoneggiamento italiano – anche se intenso – si rivelò infruttuoso, a causa del mare agitato e dello scarso addestramento degli artiglieri. Alle 6.43 le navi britanniche lanciarono alcuni siluri da 18.000 metri e virarono a Nord, avvolgendosi in cortine fumogene. La formazione italiana cessò allora il fuoco per sganciarsi dai pericolosi ordigni, permettendo ai cacciatorpediniere di portarsi a 24.000 metri. A questo punto Casardi decise di serrare le distanze, anche col rischio di esporsi al fuoco nemico: alle 6.50 fece aumentare la velocità a 32 nodi ed accostò per 60°, portandosi in rotta perpendicolare alla flottiglia inglese. Nicholson, vedendo il nemico avvicinarsi celermente, dovette virare a Nord-Est. Le navi italiane presero anch’esse questa rotta, in ogni caso la più rapida per raggiungere Lero. Contemporaneamente i cannoni italiani riaprirono il fuoco. Questo secondo cannoneggiamento si interruppe alle 7.05: i telemetristi italiani si trovarono in cattiva posizione rispetto al sole, e le navi britanniche ne approfittarono per virare a Nord. Casardi  ritenendo pericoloso questo continuo spostamento verso Settentrione – ordinò di accostare per 60°, costringendo la formazione inglese a riprendere la rotta precedente. Alle 7.22 il Contrammiraglio comunicò la situazione a Lero e richiese l’intervento dei bombardieri stanziati a Rodi: infatti, neppure uno degli aerei promessi si era fino ad allora visto.
A causa della foschia gli incrociatori italiani non poterono avvistare le navi di Collins, che durante l’inseguimento si erano dirette a tutta velocità verso la zona dello scontro. Alle 7.30 l’incrociatore britannico – avvolto nella nebbia – aprì il fuoco da 18.300 metri di distanza. Casardi, colto di sorpresa, ordinò immediatamente di accostare per 150° e di rispondere al fuoco: i telemetristi italiani non riuscivano però a vedere il nemico, così che il tiro risultò quasi completamente casuale. Il Bande Nere fu raggiunto da una granata da 152 millimetri, che scoppiò sotto coperta presso l’albero di trinchetto uccidendo quattro uomini e ferendone altrettanti. Anche il Sydney venne colpito da un proietto italiano, che attraversò il fumaiolo prodiero e ferì leggermente un marinaio inglese. Gli italiani credettero da principio di fronteggiare ben due incrociatori britannici: l’Havock era stato infatti confuso con un’unità gemella del Sydney. Casardi
ordinò di stendere una cortina di fumo per coprire la ritirata delle sue navi: i cacciatorpediniere nemici avevano infatti invertito la rotta e anche la loro artiglieria avrebbe potuto rivelarsi micidiale per i fragili incrociatori. Alle 7.46 Casardi ordinò di cessare la copertura fumogena, poiché il tiro britannico era diventato impreciso. Diradatosi il fumo, gli italiani rilevarono erroneamente due incrociatori di classe Leander, la cui distanza non era ancora misurabile coi telemetri. Dopo più di un’ora di inseguimento, le navi si trasformarono da inseguitrici ad inseguite!
Creta chiudeva alla formazione italiana la fuga verso Sud. Vi erano perciò due possibilità: verso Est, così da raggiungere Lero con un ampio giro, oppure verso Sud-Ovest, verso il mare aperto, in modo da sfruttare l’alta velocità per liberarsi degli inseguitori. Con la prima soluzione – durante la stretta virata che gli incrociatori italiani avrebbero dovuto compiere – le navi nemiche si sarebbero avvicinate notevolmente, e con esse le pericolose bordate d’artiglieria. Con la seconda possibilità si sarebbero per lo meno mantenute le distanze dagli inseguitori, e minori sarebbero state le probabilità di essere raggiunti da proietti nemici. Inoltre Casardi sapeva che verso Occidente la situazione era tranquilla, mentre verso Oriente nulla gli impediva di imbattersi in altre unità nemiche. Perciò alle 8.00 il Contrammiraglio italiano ordinò alle sue navi di virare a Sud-Ovest. Collins approfittò della posizione favorevole e tentò di tagliare la strada agli incrociatori avversari: diede perciò ordine all’Havock di raggiungere gli altri cacciatorpediniere e di inseguire
il nemico alla massima velocità. Le navi inglesi uscirono dalla foschia e a quel punto gli italiani si resero conto che nella formazione inglese vi era un solo incrociatore. Entrambe le parti ripresero quindi a scambiarsi cannonate. I veloci cacciatorpediniere di Nicholson cominciarono a serrare le distanze, tanto da poter piazzare qualche salva a cavallo della formazione italiana. Ma il forte vento di maestrale e le ondate costrinsero i contendenti ad inserire dispositivi giroscopici nei circuiti elettrici dell’artiglieria: con ciò era possibile neutralizzare la perdita di salve dovuta a rollio e beccheggio, sebbene le bordate venissero notevolmente ritardate.
Alle 8.10 le navi di Casardi si trovavano all’altezza di Capo Spada. Otto minuti dopo gli incrociatori italiani accostarono a sinistra per evitare l’isolotto di Agria. Improvvisamente, alle 8.23 accadde l’irreparabile: il Colleoni venne colpito da un proietto che esplose nella sala macchine lasciando la nave alla deriva. Attorno all’incrociatore cominciarono a levarsi sempre più numerose colonne di acqua e fuoco, quasi nascondendolo alla vista. Nonostante si moltiplicassero i colpi a segno sulla nave, i pezzi del Colleoni continuarono incessantemente a tuonare. Ma in pochi minuti 38 cannoni britannici ebbero ragione sulla valorosa
nave: ben presto le caldaie di prua vennero colpite, così che l’artiglieria  rimasta senza energia – dovette cessare la strenua difesa. Dovunque vi erano incendi ed esplosioni. Alle 8.29 i cacciatorpediniere britannici lanciarono alcuni siluri, di cui uno distrusse l’intera prora dell’incrociatore. L’equipaggio, che fino ad allora non aveva lasciato i posti di combattimento, salì in coperta per abbandonare la nave ormai distrutta.
Poco dopo altri due siluri esplosero a dritta: il Colleoni, sbandato a dritta, cominciò ad imbarcare acqua e si capovolse inabissandosi con 150 marinai. Il Bande Nere assistette alla distruzione del suo gemello, ma dovette continuare la fuga senza poter far nulla per salvarlo. Alle 8.30 un idrovolante italiano comparve sul luogo del combattimento: il primo aereo nazionale ad essersi sino ad allora visto. Alle 8.50 un proietto britannico trapassò il castello di prua del Bande Nere ed esplose nei compartimenti inferiori causando 4 morti e dodici feriti. Poco dopo una caldaia si surriscaldò e dovette essere isolata, facendo scendere la velocità a 29 nodi. Le navi inglesi cominciarono allora ad avvicinarsi: alle 9.15, con notevoli sforzi, la velocità fu riportata a 32 nodi. Il Sidney nel frattempo era stato inquadrato da sempre più salve del Bande Nere ed aveva quasi esaurito le munizioni delle torri di prua. Alle 9.26 la formazione inglese cessò il fuoco e accostò a dritta: la battaglia di Capo Spada si era conclusa.
I cacciatorpediniere Hyperion, Ilex e Havock ritornarono indietro e recuperarono 525 naufraghi del Colleoni, fra cui il comandante, Capitano di Vascello Umberto Novaro, gravemente ferito, che morì ad Alessandria quattro giorni dopo: gli venne assegnata la medaglia d’oro per il valore dimostrato nel combattimento, in rappresentanza di tutto l’equipaggio. Alle 11.30 sei trimotori S-79 attaccarono le navi inglesi, che sospesero subito le operazioni di recupero lasciando parecchi marinai italiani in mare. Alle 13.30 sei bombardieri S-81 assalirono la formazione: una bomba trapassò lo scafo dell’Havock rendendone inagibile una caldaia. Altre incursioni – alle 17.00 ed alle 18.30  non ebbero conseguenze. Il Bande Nere si era diretto nel frattempo verso Bengasi, dove arrivò la sera del 20 luglio.
Dopo questa sconfitta la Marina italiana non cercò in Casardi un capro espiatorio: egli sì avrebbe dovuto portare le navi affidategli a Lero senza esporle a rischi, ma se le ricerche aeree fossero state effettuate con accuratezza, certamente non avrebbe attaccato i cacciatorpediniere britannici – la cui inferiorità rispetto agli incrociatori italiani era comunemente accettata  per non esporsi ai micidiali proietti del Sydney. Responsabilità
anche del Comando Aereo, e di Supermarina, che commise certamente l’errore di schierare a Rodi quei due fragili incrociatori, ritenendo la rapidità un vantaggio per le unità basate nel Dodecaneso: in un mare chiuso e disseminato di isole come l’Egeo, in cui manovrare è difficoltoso, una robusta corazzatura come quella degli incrociatori leggeri di classe Garibaldi – si sarebbe dimostrata ben più utile dell’alta velocità. Se da un lato la perdita del Colleoni non ebbe grandi effetti sull’economia della flotta, dall’altro fece nascere seri dubbi sull’efficienza della flotta nazionale: dopo la battaglia di Punta Stilo – dieci giorni prima e lo scontro di Capo Spada la Marina italiana non era riuscita ad infliggere alcun danno alla Royal Navy, contrariamente alle aspettative. Del resto, già prima del conflitto molti gerarchi non riponevano alcuna fiducia nella tanto decantata superiorità navale dell’Italia – praticamente virtuale – che si tramutò in autentica inferiorità meno di quattro mesi dopo, col disastro di Taranto.

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