All'inizio del conflitto il nostro Paese dispone di una flotta che incute un certo timore. I rivali britannici sembrano volerla mettere alla prova, per saggiarne la forza, con i primi scontri a Punta Stilo e a Capo Teulada. La partita è ancora aperta
Quando l'Italia era entrata in guerra, il l0 giugno 1940, aveva una flotta potente, almeno sulla carta: due corazzate: sette incrociatori pesanti: dodici incrociatori leggeri: tre incrociatori vecchio tipo: cinquantanove cacciatorpediniere: sessantasette torpediniere; centoquindici sommergibili; sessantasei MAS. Altre quattro corazzate stanno per entrare in squadra e due sono l'orgoglio della Marina: la Littorio e la Vittorio Veneto, 36 mila tonnellate, nove pezzi da 381, trenta nodi di velocità. Tuttavia la flotta è inferiore a quella francese e alla Mediterranean Fleet che hanno una nave senza riscontro nella Marina italiana: la portaerei. La nave non voluta da Mussolini. L'apertura strategica della Marina i· taliana consiste, già il l0 giugno 1940, nell'offensiva col naviglio subacqueo. Quarantasei sommergibili vengono dislocati all'agguato in Mediterraneo, sei nel Mar Rosso, due si avviano all'Atlantico. I due terzi della flotta sottomarina (contrariamente al concetto di impiego di un terzo) vanno allo sbaraglio in omaggio alla direttiva del duce di «attaccare per mare e per cielo». Ai comandanti, Supermarina, la direzione centrale delle operazioni ordina: «Girate in quadrato di dieci miglia di lato» che ècome dire: fate da boa.
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Al Bagnolini di Tosoni Pittoni spetta la prima vittoria: la notte del 12 giugno affonda il Calypso, un incrociatore da quattromila tonnellate, con una splendida azione in superficie. Ma alla fine del mese, al rientro dalla missione dei primi giorni di guerra, dieci sommergibili mancano all'appello: sei perduti in Mediterraneo e quattro in Mar Rosso in una catena di tragiche coincidenze. Fin dai primi giorni di guerra si capovolge dunque la strategia
marittima nel Mediterraneo e si svela agli italiani per quella che è e sarà negli anni futuri: tenere aperti i canali di rifornimento verso l'Africa per alimentare il fronte principale. Il 30 giugno l'Esercito chiede a Supermarina di organizzare un convoglio per il trasporto in Africa settentrionale di 13.000, 1250 autocarri, 40.000 tonnellate di viveri, 18.000 tonnellate di carburante. E l'Aeronautica vuole il trasporto di 5000 tonnellate di materiali vari fra cui 20.000 fusti di benzina. Negli stessi giorni 'Cunningham dispone l'invio di personale, materiali e munizioni da Malta ad Alessandria. Con questo scopo fa allestire due convogli con la scorta di tutta la Mediterranean Fleet e in più ordina alla «Forza H» di portarsi da Gibilterra nel Mediterraneo occidentale per un'azione diversiva. Nascono i presupposti dello scontro navale di Punta Stilo avvenuto il 9 luglio 1940 nelle acque della Calabria. Supermarina intanto ha già preparato il convoglio italiano con le importantissime forniture richieste e dispone a protezione una scorta imponente: due corazzate, Cesare e Cavour; sei incrociatori pesanti: Bolzano, Trento, Fiume, Gorizia, Zara e Pola; otto incrociatori leggeri e una quarantina di siluranti.
Il comando in mare viene affidato all'ammiraglio di squadra Inigo Campioni, viareggino, il più anziano dei nostri ammiragli in servizio. Cunningham esce da Alessandria e da Gibilterra con sei corazzate, due portaerei, sette incrociatori, una ventina di caccia. La «Forza H», tuttavia non entra in gioco (e in questo senso fallisce il disegno di Cunningham di dividere le forze italiane) perché non si spinge oltre le Baleari a causa dei forti attacchi aerei cui viene sottoposta dalla Sardegna e delle insidie dei sommergibili. La partita si gioca invece nel Mediterraneo centrale, nel momento in cui l'ammiraglio inglese decide di tagliare la rotta di Campioni, ormai di ritorno da Bengasi e con il convoglio al sicuro. Campioni è tranquillo anche perché gli sembra d'aver inteso che il giorno prima la flotta "di Cunningham era stata «duramente colpita»
dall'aviazione dell'Egeo e praticamente dimezzata (in realtà solo l'incrociatore Gloucester è stato danneggiato senza per questo essere eliminato dalla battaglia). Il piano, in teoria, si presenta perfetto specialmente quando Cunningham, che vuole incontrare la flotta italiana dispone le sue navi al traverso della rotta per Taranto: gli inglesi sembrano cadere nella trappola. Su di essi, spera Campioni e lo spera anche Supermarina e lo assicura Superaereo, si getterà l'aviazione di Calabria, Sicilia e Puglia e li «lavorerà» per bene. Il piano invece fallisce perché l'aviazione manca completamente il suo obiettivo. Per tutta la mattina del 9 luglio nessun aereo italiano volteggia e picchia sulla flotta inglese perché non riesce a trovarla.
Almeno fino alle 13.30. A quest'ora un ricognitore marittimo batte il segnale di scoperta delle tre corazzate di Cunningham e di otto caccia di scorta. Pochi minuti prima i nostri «diecimila» avevano sventato con la manovra l'attacco degli aerosiluranti della Eagle. Campioni, a questo punto, preferisce dare battaglia e muove incontro al nemico fidando sempre nell'aeronautica. Ha disposto le navi su quattro colonne intervallate di 5 miglia: uno spiegamento che consente di avere sempre al centro le due corazzate e gli incrociatori pesanti. Cunningham avanza con tre gruppi. In testa quattro incrociatori, al centro la Warspite con cinque caccia, in coda le due corazzate meno veloci, la portaerei Eagle e l'azzoppato Gloucester. Alle 15.15 i nostri incrociatori leggeri aprono il fuoco. Alle 15.53 è la volta delle corazzate. Le salve degli inglesi inquadrano presto la corazzata Cesare che riceve un colpo da 381 sul fumaiolo poppiero. L'esplosione fa scadere la velocità della nave a diciotto nodi. Campioni, preoccupato, ordina la rottura del contatto affidando ilcontrattacco di copertura ai cacciatorpediniere. Cunningham preferisce non insistere: sta al gioco del suo collega italiano e vira per Alessandria. Alle 16.43, finalmente, arrivano i nostri aerei che attaccano le navi inglesi fino alle 21 scaricando tonnellate e tonnellate di bombe senza colpirne una Nella foga, i nostri aviatori attaccano anche le navi di Campioni non avendole riconosciute. Si conclude così lo scontro di Punta Stilo senza vinti né vincitori sul mare ma con un grosso «pegno» strategico per Cunningham che si accorge che, tutto sommato, non è poi tanto pericoloso avvicinarsi alle coste italiane. Quanto alla Marina italiana, valgono le parole dell'ammiraglio Bernotti: «Nel luglio del '40 la Marina -scrive il critico militare -in conformità agli ordini del Comando Supremo doveva tentare l'impiego coordinato con le forze dell'aria. La Marina non poteva illudersi che le corazzate rimodernate avessero capacità offensiva e difensiva sufficiente per affrontare le corazzate britanniche; ma in quel primo esperimento doveva fidare sulle possibilità che l'aiuto dell'armata aerea riuscisse tempestivo ed efficace. Tale presupposto non si verificò; quindi la battaglia navale di punta Stilo fu soltanto il principio di una battaglia impegnata in condizioni svantaggiose. La rottura del contatto fu determinata dalla necessità di evitare inutili perdite tenendo conto dell'impossibilità di sostituirle». Questa è la verità storica su Punta Stilo come emerge dopo quarant'anni di polemiche e di accuse assurde a Campioni che, se certo non era una «mente» in quanto a spirito di iniziativa, non si può neppure dipingere come un «marinaio un po' troppo timido», per non dire di peggio. Pochi giorni dopo Punta Stilo, ancora una volta a spese proprie, la Marina sconta il mancato coordinamento con l'aeronautica e soprattutto la mancanza di una propria aviazione navale imbarcata e a terra.
Avviene a Capo Spada il 19 luglio uno scontro tra incrociatori in cui perdiamo il Colleoni uno dei veloci e fragili «cinquemila» della 2a divisione dell'ammiraglio Casardi. Pochi giorni prima Casardi, che si trova a Tripoli con le sue navi, ha ricevuto un ordine da Supermarina. Deve correre veloce e bombardare la zona di Sollum e dirigere poi Il Lero per costituirvi un'agile forza navale contro il traffico britannico nell'Egeo. L'aeronautica dell'Egeo avrebbe assicurato ricognizione e copertura. Casardi parte con la sua divisione e dirige verso l'Egeo alla massima velocità: tra l'altro ha saputo che un grosso convoglio dai Dardanelli sta per dirigersi verso Alessandria. Nella zona tra Creta e Cerigotto avvista di prora il profilo di quattro bastimenti. Li individua in quattro caccia britannici che, assieme all'incrociatore Sydney, stanno rastrellando il tratto di mare. Casardi non sadella presenza del Sydney perché la ricognizione aerea il giorno prima gli ha escluso che vi siano navi britanniche in quelle acque. Ingaggia dunque battaglia contro le quattro siluranti avvistate ma viene circondato dagli inglesi che dopo circa due ore di fuoco hanno la meglio. Il Colleoni, colpito, si ferma con i motori fuori uso ma sparafino all'ultimo. Il comandante, capitano di vascello Umberto Novaro, ferito all'addome, morirà due giorni dopo in un ospedale inglese e avrà esequie solenni e l'onore delle armi. Il Bande Nere, intanto, fa rotta verso Tobruk restituendo colpo su colpo al Sydney i proiettili incassati. Alle 12.37 del mattino sul teatro della battaglia giungono, quando gli inglesi stanno raccogliendo i nostri naufraghi, i bombardieri di Rodi, il cui intervento era stato chiesto dal Bande Nere alle 7.22. I nostri aeroplani attaccano gli inglesi che sospendono le operazioni di salvataggio. Il giorno dopo Cunningham restituisce «la cortesia»: a Tobruk gli aerosiluranti della Eagle affondano i caccia Nembo e Ostro.
Si chiude l'anno 1940 con un ultimo scontro che di poco segue i precedenti, quello di Capo Teulada del 27 novembre. Anche questa battaglia -come del resto la stessa Punta Stilo -nasce in conseguenza di una azione contro il traffico marittimo. Un convoglio britannico parte da Gibilterra diretto ad Alessandria d'Egitto e Malta, l'isola che -relativamente a questo periodo -diventa sempre di più l'architrave della strategia di Cunningham. In appoggio al convoglio prende il mare la «ForzaH», mentre da Alessandria esce tutta la Mediterranean Fleet. Triplice è il compito di quest'ultima: rilevare al largo della Sardegna le navi di Gibilterra, rafforzare la scorta del convoglio e proteggere indirettamente il traffico inglese nel bacino orientale tra Egitto, Cretae Grecia. Per contrastare il disegno di Cunningham, Supermarina manda in mare.le due corazzate Vittorio Veneto e Cesare, la 1° e la 2° Divisione incrociatori, tre squadriglie di caccia e una di torpediniere. Il comando è affidato a Campioni, Jachino guida gli incrociatori. L'incontro tra le due flotte avviene allargo di Capo Teulada. Gli italiani si presentano «scompensati» davanti al nemico con gli incrociatori sottoposti al tiro delle corazzate di Cunningham. Il Trieste, in particolare, rischia di essere colpito dal Renown che da 24.000 metri lo inquadra con i sui 381. Campioni forza l'andatura della Vittorio Veneto per dare una mano agli incrociatori di Jachino e spara contro le navi inglesi. Lo scontro, tuttavia, dura pochissimo: appena dieci minuti. Le sole navi danneggiate sono il nostro caccia Lanciere (che verrà rimorchiato a Cagliari con successo) e l'incrociatore Berwick
Almeno fino alle 13.30. A quest'ora un ricognitore marittimo batte il segnale di scoperta delle tre corazzate di Cunningham e di otto caccia di scorta. Pochi minuti prima i nostri «diecimila» avevano sventato con la manovra l'attacco degli aerosiluranti della Eagle. Campioni, a questo punto, preferisce dare battaglia e muove incontro al nemico fidando sempre nell'aeronautica. Ha disposto le navi su quattro colonne intervallate di 5 miglia: uno spiegamento che consente di avere sempre al centro le due corazzate e gli incrociatori pesanti. Cunningham avanza con tre gruppi. In testa quattro incrociatori, al centro la Warspite con cinque caccia, in coda le due corazzate meno veloci, la portaerei Eagle e l'azzoppato Gloucester. Alle 15.15 i nostri incrociatori leggeri aprono il fuoco. Alle 15.53 è la volta delle corazzate. Le salve degli inglesi inquadrano presto la corazzata Cesare che riceve un colpo da 381 sul fumaiolo poppiero. L'esplosione fa scadere la velocità della nave a diciotto nodi. Campioni, preoccupato, ordina la rottura del contatto affidando ilcontrattacco di copertura ai cacciatorpediniere. Cunningham preferisce non insistere: sta al gioco del suo collega italiano e vira per Alessandria. Alle 16.43, finalmente, arrivano i nostri aerei che attaccano le navi inglesi fino alle 21 scaricando tonnellate e tonnellate di bombe senza colpirne una Nella foga, i nostri aviatori attaccano anche le navi di Campioni non avendole riconosciute. Si conclude così lo scontro di Punta Stilo senza vinti né vincitori sul mare ma con un grosso «pegno» strategico per Cunningham che si accorge che, tutto sommato, non è poi tanto pericoloso avvicinarsi alle coste italiane. Quanto alla Marina italiana, valgono le parole dell'ammiraglio Bernotti: «Nel luglio del '40 la Marina -scrive il critico militare -in conformità agli ordini del Comando Supremo doveva tentare l'impiego coordinato con le forze dell'aria. La Marina non poteva illudersi che le corazzate rimodernate avessero capacità offensiva e difensiva sufficiente per affrontare le corazzate britanniche; ma in quel primo esperimento doveva fidare sulle possibilità che l'aiuto dell'armata aerea riuscisse tempestivo ed efficace. Tale presupposto non si verificò; quindi la battaglia navale di punta Stilo fu soltanto il principio di una battaglia impegnata in condizioni svantaggiose. La rottura del contatto fu determinata dalla necessità di evitare inutili perdite tenendo conto dell'impossibilità di sostituirle». Questa è la verità storica su Punta Stilo come emerge dopo quarant'anni di polemiche e di accuse assurde a Campioni che, se certo non era una «mente» in quanto a spirito di iniziativa, non si può neppure dipingere come un «marinaio un po' troppo timido», per non dire di peggio. Pochi giorni dopo Punta Stilo, ancora una volta a spese proprie, la Marina sconta il mancato coordinamento con l'aeronautica e soprattutto la mancanza di una propria aviazione navale imbarcata e a terra.
Avviene a Capo Spada il 19 luglio uno scontro tra incrociatori in cui perdiamo il Colleoni uno dei veloci e fragili «cinquemila» della 2a divisione dell'ammiraglio Casardi. Pochi giorni prima Casardi, che si trova a Tripoli con le sue navi, ha ricevuto un ordine da Supermarina. Deve correre veloce e bombardare la zona di Sollum e dirigere poi Il Lero per costituirvi un'agile forza navale contro il traffico britannico nell'Egeo. L'aeronautica dell'Egeo avrebbe assicurato ricognizione e copertura. Casardi parte con la sua divisione e dirige verso l'Egeo alla massima velocità: tra l'altro ha saputo che un grosso convoglio dai Dardanelli sta per dirigersi verso Alessandria. Nella zona tra Creta e Cerigotto avvista di prora il profilo di quattro bastimenti. Li individua in quattro caccia britannici che, assieme all'incrociatore Sydney, stanno rastrellando il tratto di mare. Casardi non sadella presenza del Sydney perché la ricognizione aerea il giorno prima gli ha escluso che vi siano navi britanniche in quelle acque. Ingaggia dunque battaglia contro le quattro siluranti avvistate ma viene circondato dagli inglesi che dopo circa due ore di fuoco hanno la meglio. Il Colleoni, colpito, si ferma con i motori fuori uso ma sparafino all'ultimo. Il comandante, capitano di vascello Umberto Novaro, ferito all'addome, morirà due giorni dopo in un ospedale inglese e avrà esequie solenni e l'onore delle armi. Il Bande Nere, intanto, fa rotta verso Tobruk restituendo colpo su colpo al Sydney i proiettili incassati. Alle 12.37 del mattino sul teatro della battaglia giungono, quando gli inglesi stanno raccogliendo i nostri naufraghi, i bombardieri di Rodi, il cui intervento era stato chiesto dal Bande Nere alle 7.22. I nostri aeroplani attaccano gli inglesi che sospendono le operazioni di salvataggio. Il giorno dopo Cunningham restituisce «la cortesia»: a Tobruk gli aerosiluranti della Eagle affondano i caccia Nembo e Ostro.
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