Cronologia degli eventi

mercoledì 26 gennaio 2011

Vinceremo!

Mussolini ha lanciato la sua parola d'ordine. Nell'entusiasmo generale sono in tanti ad avere l'impressione di assistere a una farsa che può finire in tragedia. Dalle testimonianze di alcune notissime personalità apprendiamo come vissero il momento dell'entrata in guerra dell'Italia (di ENZO BIAGI)

Nel giugno del 1940 io non avevo ancora vent'anni, ed ero «praticante» al Resto del Carlino e matricola all'Università. stavo in cronaca, e mi mandarono in piazza: dovevo raccontare come la gente avrebbe accolto l'annuncio. Lui, il Duce, doveva parlare. Ricordo che era un pomeriggio molto caldo; d'estate Bologna arde, non scende un filo di vento dalle colline, e non ti salva l'ombra dei portici. Ho in mente i cortei che arrivavano da fuori porta; gli operai portavano cartelli col nome delle fabbriche -Ducati, Sabiem, Calzoni -qualcuno spingeva la bicicletta. I giovani erano in divisa, le ragazze in camicetta bianca ridevano. C'erano anche le massaie rurali, venute dalle vicine campagne. Nei cinegiornali, si proiettavano già scene delle avanzate tedesche: la guerra- lampo annientava le inesperte divisioni polacche. Si vedevano campi di prigionieri, uomini seduti per terra con le nuche rasate, abbandonàti allo sconforto. Le colonne motorizzate della Wehrmacht sollevavano nuvole di polvere nell'immensa pianura. I fotografi della propaganda Kompanie ritraevano volti di vecchi sconsolati, una bambina stava seduta, sola, sulle macerie, e teneva trale mani un gabbia con un uccellino. Al Teatro Medici si esibiva la compagnia di Odoardo Spadao; alla radio suonavano le orchestre di Barzizza e di Angelini, il Trio Lescano, con Rabagliati, con Silvana Fioresi, con Memè Bianchi, con Ernesto Bonino. Tutto sembrava allusivo: (Tomerai da me, perché l'unico sogno sei tu», oppure: «O dolce Vìenna tu, sei come un sogno di gioventù». Com'era bella Clara Calamai nel film Le sorprese del vagone letto, in sottoveste di seta nera; e mi piaceva Laura Nucci; il critico Eugenio Ferdinando Palmieri l'aveva definita «rapinosissima». L'esercito tedesco aveva già invaso il Belgio e l'Olanda, e marciava verso Parigi. Aveva, bisogna riconoscerlo, molti ammiratori; «Quell'Hitler» diceva il filosofo Galvana della Volpe, che veniva qualche notte inredazione a trovare un amico, «ha il culo nel burro». C'era già l'oscuramento, suonavano le sirene e si facevano le prove degli allarmi, le cantine venivano trasformate, con qualche palo di legno, qualche panchina, e qualche secchia di sabbia, in rifugio. Avevano distribuite le carte annonarie, le «tessere» e tutto era razionato: tanti «punti» perle stoffe e perle scarpe. Spariti praticamente il caffè, ci si adattava al «Karkadè», scarseggiava il carbone, e si facevano seccare palle di carte. Ma c'è chi accaparra: chi imbosca scatole di tonno e salami. lana e cuoio, tutto serve, e tutto diventerà prezioso. Diceva mio padre, promosso capofabbrica: «Se unò compera un quintale di pepe diventa milionario». È l'inizio del mercato nero. Sparivano le calze di seta, e si imponeva la gonna pantalone; si leggevano i romanzi ungheresi e quelli di Cronin, Americana di Vittorini ci fece conoscere un mondo sconosciuto. Le auto circolavano a metano e anche a carbonella. Era proibito ballare, ma si organizzavano festicciole in famiglia: ognuno contribuiva, con una avara torta o con una bottiglia di vermut. Polvere di stelle e l'Urlo della tigre suscitavano esoti· che emozioni. Verso le sei di quel lunedì, Mussolini parlò. Gridò: «Vinceremo!». Ci furono urli e applausi, ma vicino al bollettino di Diaz, che celebrava una ormai lontana vittoria, una donna vestita di nero piangeva Più tardi venimmo convocati al GUF, Gruppo Universitari Fascisti, e il segretario ci comunicò che dovevamo considerarci volontari. Molti non tornarono. E per gli altri, l'amara canzone napoletana: «Chi ha dato, ha dato, chi ha avuto, ha avuto, scurdammoce o' passato...». «Nel breve giro di un'ora Piazza Venezia ha ripreso l'aspetto di quelle meravigliose, indimenticabili adunate, tutta colma d'una moltitudine acclamante, tutta balenante di vessilli e risuonante di grida guerriere, di squilli, di canti e di un'altissima appassionata invocazione Duce! Duce! Duce!...

Ed ecco, alle 18 precise. Egli si affaccia sul balcone di Palazzo Venezia. Il Duce appare in divisa fascista, il braccio proteso nel saluto romano, il busto eretto, il volto sereno come una scultorea figura cesarea. La passione del popolo l'investe e l'avvolge in un alone di trionfo. Le grida, e acclamazioni, i canti, gli squilli, si fondono in un clamore tonante. La selvadelle bandiere si solleva come una fiamma verso il cielo. È un attimo di una solennità incomparabile, è l'attimo atteso delle supreme decisioni, l'attimo che sta per segnare l'inizio di una nuova storia.. Il Segretario del Partito, Capoferri, ordina il saluto al Duce, accolto da un formidabile «A Noi!». Poi la parola del Duce scende lenta, martellante, incisiva... Si canta, si grida, si agitano bandiere e cartelli. Ancora una volta Mussolini ha pronunziato, la «parola paurosa e
fascinatrice :guerra». Da il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940.
Ho chiesto a Gianni Agnelli come rivede quel giorno. Ecco il racconto: «Ero iscritto a giurisprudenza a Torino, e ci chiamarono in via Po per ascoltare la voce del capo. Stavo assieme agli altri studenti. Ero convinto che non avrebbe dichiarato le ostilità. Venne ascoltato con poco entusiasmo. Alcuni erano tristi, io anche. Pranzai con mio nonno. Aveva visto Mussolini tre giorni prima che ci mettesse nei guai. «Come stanno i lavoratori di Torino?» gli chiese. «Debbono essere grati al duce che tiene il paese fuori dalla mischia». Non disse nulla, e noi continuammo a vendere, fino all'ultimo, camion alla Francia. Approfittai, come molti altri universitari, di quella specie di amnistia che c'era per chi era destinato al fronte: il diciotto assicurato. Diedi l' same di scienze delle finanze col professor Luigi Einaudi. Sembrava non vedesse niente, prendeva i libretti, metteva il voto, firmava, li restituiva. Quando fu il mio turno, senza alzare la testa, sbrigò la formalità e disse: «Col suo nome si dovrebbe vergognare». Eravamo una decina, c'erano preti, ragazze, io tacqui, ma un compagno intervenne: «Si vergogni lei, col suo, a stare dietro a quella cattedra». Mussolini l'ho visto la prima volta da bambino, al Lingotto, ci fu l'adunata nel cortile, il nonno indossava il tight, eravamo nel '32. Sette anni dopo, invece, a Mirafiori, molte cose erano già cambiate: portava l'uniforme di membro del Senato, io ero in divisa della GUF, stavo sul palco, ma in fondo, lontano. Arrivò con una Lancia o un'Alfa, e la cosa fu considerata di pessimo gusto. Poi si rivolse alle maestranze: «Il mio discorso sulla previdenza e sugli orari settimanali lo avete letto?» chiese. Un lungo, imbarazzato silenzio. «Allora» riprese irritato «andate a casa e leggetelo». In casa mia, erano amici di Galeazzo e dell'Edda: lui non mi piaceva, aveva la voce chioccia, le calze arrotolate, faceva il critico, l'oppositore, mentre ci stava dentro e ne traeva tutti i vantaggi. Si dava molto tono: non mi seduceva nulla dell'estetica dei camerati; Edda invece era affabile, prepotente, generosa, viziata l'ho rivista anche dopo, ma non l'ho sentita parlare del passato».

La testimonianza dello scrittore Riccardo Bacchelli: «La dichiarazione di guerra l'ho sentita annunciare da Mussolini, ero sul ponte Carignano a Genova, e la gente la accolse con un tetro silenzio. Sono realisti, e quelle parole li spaventarono. Dall'Etiopia in poi, io. pensavo al peggio. Mi sentivo come il cane che durante la pioggia cammina lungo il muro. Quello che mi turbava ~ ra il rimbecillimento generale, e ne avvertivo i sintomi». Luciano Lama, allora, era studente. «Mi trovavo» racconta «a Firenze, ero iscritto a Scienze politiche. Mio padre ferroviere sognava per me la carriera del diplomatico. Stavo dando degli esami. Già allora avevo orientamenti antifascisti, ero collegato con un gruppo di «Giustizia e Libertà» che operava all'Alfieri. Ogni tanto distribuivamo qualche opuscolo, qualche scritto. Era una opposizione morale. Dopo sette mesi sono andato alle armi. Pensavo che si potesse vincere e che non potevamo liberarci dalla dittatura».

Il giovanotto Federico Fellini, classe 1920, è redattore del Marc'Aurelio, bisettimanale umoristico che si stampa a Roma. Se ne è andato da casa per inseguire i suoi sogni. Disegna vignette e scrive pezzi sulle «fidanzatine». Il direttore del periodico è uomo di fede: alle tredici, quando la radio trasmette il bollettino delle operazioni, tutti in piedi, e sull'attenti. Quel giorno Federico è solo in sede, via Regina Elena, 68. Ha un lavoro da  terminare, ed è un pomeriggio afoso.  Dal cortile, sale la voce di un altoparlante: «Sentii» ricorda «lui che parlava dal balcone, ma non pensai a niente. Scesi, e vidi nel cortile la portiera che stava occupandosi di una gattina che aveva partorito in una scatola di cartone. Mi avviai verso Piazza Barberini, uno in bicicletta urlava: «C'è la guerra». Entrai in un caffè, e chiesi un Aperol: «Lo vuole con la buccia al limone?» mi domandò il barista. Poi commentò: «Accidenti, che casino».

Giorgio Amendola si trovava in Francia, e aveva trovato rifugio a Marsiglia. Era privo di collegamenti, e non aveva documenti falsi. «Un bombardamento fascista» racconta «annunciò l'entrata in guerra dellltalia. lo ero in tram, suonarono le sirene, e qualcuno diede la notizia. Sentii un grande dolore e una grandevergogna. Decisi di passare subito all'illegalità e di non recarmi al luogo dove gli italiani erano invitati a recarsi per regolarizzare la loro posizione. Dovevano presentarsi al campo sportivo. La vergogna nasceva dal fatto che attaccavamo un paese,già caduto, il dolore dalla certezza che l'Italia sarebbe uscita distrutta da quella precipitosa partecipazione al conflitto. L'idea che attraverso la di· sfatta delle camicie nere si sarebbero create le condizioni del nostro ritorno non mi confortava. Avrei voluto che gli italiani riacquistassero la libertà senza passare attraverso quello che sarebbe stato certamente un periodo tragico. Marsiglia era invasa da una moltitudine di rifugiati stranieri e francesi che cercavano un mezzo per imbarcarsi. La polizia eseguiva controlli per le strade, e io me ne stavo chiuso in camera, perché non potevo circolare. I giorni passavano lentamente, forse sono stati solo quattro o cinque, ma nella memoria mi sembrano interminabili. Alla fine mi decisi, malgrado ilrischio, ad uscire. In poche ore, ciò che provoca ancora oggi la rabbia di Germaine, mia moglie, trovai un appartamento alla Petite Croniche, di cui era proprietario un vecchio comico italiano, di nome Soccodonato, e che doveva avere mangiato la foglia, ma non disse nulla. Si lì passaro no molti compagni, come Longa, Novella, Roasio. Intanto Parigi era caduta».

Marcello Mastroianni: «Fu una gior· nata eccitantissima. Mi pareva di essere, nel mio piccolo, al centro di un avvenimento grandioso. Mi era stato insegnato così. C'era un certo grigiore, non accadeva mai niente. Questo l0 giugno parve un fatto straordinario, come andare al Luna"Park dove c'erano i fu Ciletti,i botti. Ero avanguardista, e fmalmente potetti vedere Mussolinida vicino».

Enzo Ferrari: «Ero a Maranello, a casamia. Ho provato un senso di scoramento, il ricordo del '15.'18 a fianco dei francesi, degli inglesi,pensare di essere contro gli Stati Uniti, io che con gli americano avevo avutorapporti di carattere sportivo. Ho capito in quel momento che ci sono uomini che ricoprono posti di grande responsabilità ma finiscono per agire più per emozioni che per ragionamento. Mussolini si era lasciato irretire dai tedeschi, aveva subito il fascino del vincitore».

Giuseppe Prezzolini: Mi trovato in America. Lo ricordo come una disgrazia. Ero assolutamente contrario e speravo che Mussolini ne sarebbe rimasto fuori. Sapevo benissimo che non eravamo preparati, ero sicuro che gli Stati Uniti si sarebbero battuti contro la Germania. La maggioranza dei cittadini si schierava dalla parte dell'Inghilterra». Giorgio Pini era redattore capo del Popolo d'Italia; praticamente lo dirigeva. Quasi ogni giorno, riceveva una telefonata di Mussolini che gli domandava notizie del giornale, o commentava con lui i fatti del mondo. Aveva, insomma, la responsabilità dell'organo del regime, e una certa confidenza con il suo capo. Aveva scritto un fondo: L'ora dei fedeli alla vigilia, e ricevette una lettera. non firmata, che ancora conserva, e che lo turbò. Diceva lo sconosciuto corrispondente: «Mi è capitato fra le mani il vostro articolo. Permettetemi di dirvi che ho sentito il cupo suono della camo pana dei moribondi. Le vostre espressioni sono le stesse dei governi che sen-tivano sfuggire il terreno e invano cercavano di salvarsi con le parole minacciose. Voi, come Muti e Mussolini, volete fissare l'Italia con le puntine dello squadrismo: far retrocedere il 1940 al 1922. Invece non siete più padroni degli uomini che sono più forti delle vostre frasi. Diciasette anni del resto sono già troppi. Avete spezzato l'unità degli italiani dividendoli in fascisti e non fascisti. Avete perduto la vittoria gettando i destini della patria in braccio alla Germania del megalomane e squilibrato Hitler». Poco prima dell'intervento, il18 maggio, Mussolini lo ricevette a Palazzo Venezia, e vedendolo in divisa, perché era stato richiamato, gli chiese notizie sul morale dei soldati. «Ogni tanto» rievoca Giorgio Pini «prendeva e mangiava alcune ciliege che sceglieva da una fruttiera posta in un angolo del grande tavolo sul quale erano stese ampie carte geografiche d'Europa. Espressi la preoccupazione che l'Italia tardasse troppo a inserirsi nella lotta, col rischio di trovarsi poi ad agire con difficoltà a sostegno delle proprie rivendicazioni. Egli osservò che il conflitto non sarebbe cessato nemmeno dopo che la Francia e l'Inghilterra
fossero state sconfitte. Anche l'efficacia della guerra lampo si sarebbe attenuata: già gli inglesi erano riusciti a neutralizzare le famose mine magnetiche tedesche, e ai paracadutisti venivano opposti reparti. speciali. Perciò
sarebbe durato a lungo e con sempre più estese complicazioni. Non fu affatto Mussolini, da solo, a volere l'intervento, ma furono tutti. gli italiani giovani di spirito, fra i quali i superstiti del 1915, e spontanea fu la manifestazione di entusiasmo a PiazzaVenezia. Assieme ai colleghi del giornale ascoltai in redazione quel discorso trasmesso alla radio. Mi parve d'essere il solo a notare una certa incrinatura nella voce di Mussolini nel suo grido finale: «Vinceremo!», quasi un cedimento derivato nello sforzo vocale da una recondita angoscia. Alle 21 e 15 di quella sera io ero ancora a casa a scrivere il commento, quando dal centralino del giornale mi fu girata la comunicazione col presidente che mi chiamava da Roma. Espressi la mia soddisfazione per la fine della non belligeranza (ibrida ed equivoca soluzione provvisoria, imposta dalla nostra impreparazione militare e dall'anticipato intervento tedesco), e gli dissi che nel pomeriggio avevamo lanciata una edizione straordinaria: che una colonna di studenti dimostranti era passata applaudendo sotto la nostra sede; che molti redattori avevano presentata domanda d'arruolamento volontario o erano destinati a prestar servizio quali corrispondenti di guerra. Con tono che mi parve sentire commosso, mi chiese dallo stato d'animo dei milanesi. Risposi che in quel momento era buono. Il 13, quando mi richiamò, lo informai che Luigi Barzini era arrivato a Milano dal fronte occidentale, dopo essersi trovato in Belgio presso il castello reale di Laecken senza riuscire ad avvicinare re Leopoldo, perché il monarca o si era fatto scusare di nulla poter dire nel difficile momento in cui si trovava dopo la capitolazione. A suavolta, la regina madre Elisabetta aveva pregato il giornalista italiano di recapitare una lettera alla figlia Maria José con la quale non avrebbe altrimenti saputo come mettersi incomunicazione. Barzini mi aveva descritto lo squallore delle rovine di Dunkerque e dei ma· teriali là abbandonati dal fuggitivi coro pi di spedizione inglese. Infine avvertii il presidente che in quel momento era in corso a Milano il primo allanne aereo nella cittàtotalmente oscurata». Sandro Pertini era al confino a Ventotene: «Sentii la notizia dalla radio. C'erano con me Longo, Scoccimarro, Terracini, La Valera. Le cose andavano già male: c'era stata l'invasione della Polonia. c'era stata Dunkerque. Gli altri non erano preparati, in Inghilterra avevano rimesso in vigore la coscrizione militare da poco. Quando dichiarò guerra alla Russia mi misi a piangere, ebbi lasensazione che eravamo fottuti. Due mesi dopo, il prefetto di Genova, Vittorelli, chiedeva che la mia detenzione nell'isola venisse prolungata, con questa giustificazione: «Trattasi di individuo colto, di facile parola, capace di esercitare grande ascendente sulla massa e, sovra ogni cosa, tenacemente attaccato all'idea socialista,.con avversione al regime e alle sue istituzioni».

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