Subito dopo la notizia dell'avvenuto Armistizio tra Italia e potenze Alleate, i tedeschi rompono gli indugi. Primo obiettivo: la Capitale d'Italia.
Al momento dell’armistizio, Kesselring disponeva di circa otto divisioni sparse tra la parte centrale e meridionale della penisola e sottoposte a due comandi operativi differenti.
Al nord, presso il gruppo di armate B comandato da Rommel, c’erano altre nove divisioni che però, su ordine di Hitler, dovevano rimanere dove erano (il Führer era ancora convinto che, di fronte ad una minaccia seria, si dovesse concentrare la difesa tedesca solo nella parte settentrionale del Paese).
Per il momento quindi, la X Armata del generale von Vietinghoff doveva bastare a sé stessa sia per difendersi dall’invasione angloamericana, sia per tenere testa all’eventuale insurrezione delle “forze badogliane”.
Ma c’era anche un altro problema abbastanza spinoso che Kesselring doveva affrontare: tutte le vie di ritirata dal sud verso il nord d’Italia passavano da Roma, per cui la Capitale doveva essere presa e tenuta almeno fino a quando il quadro sulle reali intenzioni italiane post-armistizio non fosse divenuto più chiaro.
La dispersione delle truppe tedesche, impegnate tra l’altro a contrastare l’avanzata angloamericana nel sud, evidenziava una sensibile disparità di forze a favore degli italiani: questi ultimi infatti avevano intorno a Roma ben otto divisioni, forti di 55.000 uomini, 200 carri armati, artiglieria e aviazione; tali unità distavano dagli otto ai quaranta chilometri dal centro della Capitale. I tedeschi invece potevano contare su poco più di 26.000 uomini e un numero assai inferiore agli italiani in mezzi corazzati e artiglieria.
A fronte di questo squilibrio di forze in suo sfavore, Kesselring decise di agire in maniera cauta e poi, nel caso, dare via libera alla “corsa verso Roma” da parte della Wehrmacht.
La prima mossa tedesca fu quella di formare due gruppi da combattimento; il primo fu inviato a disarmare (se possibile pacificamente) gli italiani disposti tra Roma e la costa, mentre una seconda colonna venne fatta dirigere verso il grande deposito di carburante di Mezzocamino, sulla via Ostiense.
A partire da questo momento la sequenza degli avvenimenti divenne densa e a tratti confusa nel dettaglio.
Lanuvio e Ardea, tenute da contingenti della divisione Piacenza, caddero abbastanza facilmente, così come il presidio di Ostia, il quale, anzi, consegnò di spontanea volontà le proprie armi. In concomitanza con questa operazione, colonne di paracadutisti si avviarono verso la Capitale risalendo le vie Laurentina, Portuense, l’Ostiense e via della Magliana.
La prima colonna, quella che si avvicinava dalla Laurentina, giunse presso il complesso militare della Cecchignola e, a sera inoltrata, pattuglie avanzate arrivarono alle porte dell’EUR.
Verso la stessa ora, si ebbero i primi (ancora amichevoli) contatti tra tedeschi e italiani alla Magliana; i primi chiesero di passare, i secondi rifiutarono e per il momento la cosa finì lì, senza colpo ferire.
Successivamente però, verso le 23:00, un secondo distaccamento tedesco si avvicinò ad alcune batterie di mortai italiani nei pressi del ponte della Magliana e con uno stratagemma avviò un breve ma cruento scontro a fuoco. Nello stesso momento iniziarono i combattimenti alla Cecchignola.
Nel frattempo, la 3ª divisione panzergrenadieren avanzava da nord su tre colonne, lungo le statali Cassia, Aurelia e Flaminia, incontrando scarsa resistenza.
Mentre questo accadeva, i comandanti italiani tempestavano di telefonate il Comando di Roma, ricevendo risposte vaghe e frammentarie sul comportamento da tenere, oppure spesso non ricevendo risposta alcuna.
Alle 02:00 del 9 settembre venne attaccato anche l’aeroporto di Ciampino, dove gli avieri italiani opposero una certa, seppur vana, resistenza.
Nel sud della capitale intanto la pressione tedesca diveniva sempre più forte: alla Magliana i granatieri italiani furono costretti a ripiegare, mentre intorno alle 03:00 arrivò la notizia che i tedeschi avevano raggiunto Tor Sapienza, a soli otto chilometri in linea d’aria dal centro della città.
Dall’Appia intanto, si avvicinava anche la 15ª divisione panzergrenadieren, mentre alle 04:00 del mattino distaccamenti della 3ª divisione panzergrenadieren avanzavano già verso il porto di Civitavecchia.
Solo a questo punto il gen. Roatta, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate italiane, comprese che era in atto un avvicinamento concentrico a Roma dai quattro punti cardinali.
Il comando concretizzò quindi che la città stesse per essere accerchiata e che l’unica via di fuga ancora libera per la Famiglia Reale era la via Tiburtina. Da qui si poteva ancora raggiungere Pescara e imbarcarsi per il sud, verso il territorio in mano agli angloamericani.
Unitamente a questa importante decisione, ne fu presa anche un’altra (decisiva per le sorti della Capitale), che anni più tardi diventò anche oggetto di un processo per la mancata difesa di Roma: tutte le truppe italiane facenti parte del dispositivo intorno e dentro la Capitale dovevano sganciarsi e concentrarsi presso Tivoli, ad una trentina di chilometri di distanza.
Si tenga presente che quest’ultima decisione venne presa in un momento nel quale le difese della città erano ancora intatte e i tedeschi non avevano compiuto progressi significativi nei loro tentativi di infrangerle.
Tuttavia la motivazione principale di tale ordine fu che “la situazione era tale da escludere una lunga resistenza alle truppe tedesche intorno alla Capitale”.
Strano... 55.000 italiani non furono ritenuti in grado di resistere a poco più di 26.000 tedeschi e per giunta nella difesa della propria Capitale.
Gli avvenimenti intanto si susseguivano arrembanti: al mattino del 9 settembre le avanguardie della 3ª divisione panzergrenadieren giunsero davanti agli avamposti italiani della divisione Ariete, nei pressi del lago di Monterosi, e intimarono di cedere il passo.
In tutta risposta, il ponte sul quale i tedeschi dovevano transitare venne fatto saltare in aria da un coraggioso tenente italiano (che rimase ucciso nel suo eroico gesto).
Nel frattempo, alla Magliana, i posti di blocco italiani cadevano, venivano ripresi, ricadevano di nuovo in mani tedesche e passavano ancora in quelle italiane nel corso di accesi combattimenti, facendo assumere agli scontri tutta l’aria di una battaglia vera e propria.
Un lancio di circa 800 paracadutisti tedeschi venne effettuato nelle campagne di Monterotondo, con l’obiettivo di impadronirsi della sede del Comando Italiano a Palazzo Orsini e prendere prigioniero tutto lo Stato Maggiore, generale Roatta compreso.
Un lancio di circa 800 paracadutisti tedeschi venne effettuato nelle campagne di Monterotondo, con l’obiettivo di impadronirsi della sede del Comando Italiano a Palazzo Orsini e prendere prigioniero tutto lo Stato Maggiore, generale Roatta compreso.
L’azione però fallì a causa della tenace resistenza dei nostri soldati nella zona, che in molti casi vennero aiutati da civili in armi.
Alla Cecchignola, 200 italiani (quasi tutti elementi in addestramento provenienti da corsi ufficiali e sottufficiali) resistevano ancora, spesso impegnandosi in accesi scontri all’arma bianca con i ben più esperti militari germanici. Tale resistenza inaspettata sospinse i tedeschi ad aggirare il complesso militare e a dirigersi direttamente verso la città. Gli italiani poterono così ripiegare con relativa calma e presentarsi presso i comandi della Capitale per partecipare alla sua difesa.
Presso il comando germanico di Frascati intanto i nervi erano tesi. I tedeschi ancora stentavano a credere che l’armistizio fosse stato firmato dagli italiani senza un accordo con gli Alleati che salvaguardasse la Capitale, pertanto si muovevano ancora abbastanza cautamente. Kesselring, nello specifico, assieme al suo capo di Stato Maggiore generale Siegfried Westphal, si aspettava da un momento all’altro un “colpo risolutore” da parte nemica che mirasse direttamente alla Capitale, mettendo in seria difficoltà le truppe germaniche che ormai la cingevano d’assedio.
Forti di questa convinzione, i tedeschi si persuasero della necessità di tenere sgombre le vie da e per Roma e per farlo maturarono la decisione di trattare con gli italiani la resa della città senza ulteriori combattimenti.
Ciò tuttavia non trovò il tempo di essere messo in atto, perché un grosso aiuto per risolvere la spinosa questione giunse proprio dagli stessi italiani. In ottemperanza all’ordine ricevuto dall’Alto Comando infatti, alcune divisioni iniziavano già a ritirarsi verso Tivoli. Per prima si mosse la divisione Ariete, la quale avviò la sua manovra attraverso la via Cassia. Raggiunta la periferia della città, le truppe imboccarono il viale Parioli e successivamente la via Tiburtina. Qui sfilarono al fianco di quelle tedesche dirette verso la città senza che venisse sparato un solo colpo.
In altre zone però la confusione era ancora grande e si continuava a combattere.
Alle 04:00 del mattino, al ponte della Magliana, un falso ordine attuato dai tedeschi indicò agli italiani di abbandonare le loro posizioni e di dirigersi verso il centro della città. Sulle prime la cosa sembrò strana, ma poi gli uomini iniziarono a smantellare i posti di blocco e a muoversi in conformità alle direttive ricevute.
Quando l’inganno si palesò chiaro, ormai i principali capisaldi erano stati irrimediabilmente perduti.
Intanto, alle 21:00 del 9 settembre, un emissario dell’Alto Comando italiano (il colonnello Giaccone) si presentò al comando tedesco di Frascati con una proposta: una tregua d’armi e la richiesta di dichiarare Roma città aperta. L’accordo, secondo il punto di vista italiano, prevedeva che i tedeschi rimanessero fuori della Capitale mentre l’ordine pubblico al suo interno sarebbe stato assicurato dalla divisione Piave e dalle forze di Polizia.
Questo rappresentava un secondo insperato aiuto per i tedeschi, i quali accettarono riservandosi però di occupare la propria ambasciata, la loro centrale telefonica e la stazione radio dell’EIAR. Successivamente, quando venne il momento di mettere per iscritto l’accordo, essi provarono a forzare la mano agli italiani, chiedendo (o meglio, intimando) di poter formare un comando militare all’interno della città.
Alle proteste del colonnello Giaccone, Kesselring rispose che se l’accordo fosse andato a monte, i tedeschi avrebbero fatto saltare le condutture dell’acqua e sottoposto Roma ad un bombardamento aereo.
L’ufficiale italiano tornò quindi a Roma e sottopose la cosa al generale Carboni, comandante militare della città, il quale ufficialmente accettò, ma nel contempo prese contatti con i membri della Resistenza per favorire un’insurrezione popolare contro i tedeschi, impegnandosi addirittura a fornire le armi e le munizioni necessarie agli uomini del Comitato di Liberazione Nazionale.
Mentre tutto questo avveniva, i combattimenti proseguivano e gli uomini seguitavano a morire.
Luogo dello scontro decisivo fu la zona di Porta San Paolo, in direzione della quale premevano i tedeschi avanzanti sulla via Ostiense.
È qui che si radunarono i soldati disponibili e gli antifascisti disposti a prendere le armi contro l’invasore, ed è qui che scoppiò il combattimento più cruento.
Verso la mezzanotte tra il 9 e il 10, i granatieri italiani passarono all’attacco per riprendere il ponte della Magliana e, pur con gravi perdite, intorno all’alba erano quasi riusciti a riconquistarlo.
A questo punto però i combattimenti furono nuovamente interrotti per avviare trattative: i tedeschi chiedevano di passare per spostarsi verso la Campania, al fine di contrastare l’avanzata Alleata.
Gli italiani accettarono, ma appena si portarono oltre il ponte per consentire ai tedeschi di passare, questi ultimi ripresero a sparare.
La situazione a questo punto divenne critica; i nostri soldati furono costretti a ripiegare verso l’incrocio con la via Ostiense, dove li raggiunse l’ordine di ritirata verso l’EUR.
Qui nel frattempo si erano però infiltrati i paracadutisti tedeschi, i quali sparavano dai tetti dei palazzi adiacenti.
Ulteriori combattimenti si svilupparono sulla via Laurentina, lungo la quale i tedeschi incontrarono una certa resistenza presso la borgata della Montagnola e al Forte Ostiense; qui, cinquecento granatieri italiani e un certo numero di civili combatterono disperatamente per sbarrare il passo alle truppe germaniche, subendo rispettivamente 45 e 9 perdite.
Caduto anche questo baluardo, la colonna tedesca si unì quindi ai paracadutisti provenienti dalla via Ostiense e proseguì oltre, verso la popolosa zona della Garbatella, dove altri militari e civili italiani opposero le loro armi.
Lo scontro fu però breve e si risolse a favore dei tedeschi a causa della schiacciante superiorità in uomini, mezzi e organizzazione di questi ultimi.
Le prime granate iniziarono quindi a cadere nella piazza antistante la basilica di San Paolo fuori le mura che, pur essendo a tutti gli effetti territorio dello Stato del Vaticano, venne occupata dai tedeschi dopo un breve scontro.
Lasciato a San Paolo un distaccamento, i paracadutisti continuarono la loro avanzata lungo la via Ostiense; qui furono fronteggiati da alcuni reparti dei Lancieri di Montebello che però, nel vivo degli scontri, ricevettero ordine di ripiegare.
Ormai l’ultimo ostacolo che i tedeschi avevano di fronte era costituito dall’imponente Porta San Paolo, sulle mura Aureliane, con le sue torri merlate e le pareti dallo spessore di oltre quattro metri.
Qui, spontaneamente o agli ordini di giovani e audaci ufficiali, arrivarono altri soldati italiani provenienti dalle caserme della Capitale, nonché civili desiderosi di dare una mano in difesa della propria città.
Nella grande piazza, delimitata dalla Piramide Cestia a sinistra e dalla stazione Ostiense a destra, si accesero scontri durissimi, nei quali i tedeschi fecero uso anche di mortai. In aiuto agli italiani giunsero anche alcuni autoblindo di un plotone di cavalleria motorizzata, ma questi non avevano una corazzatura atta a resistere ai colpi delle armi anticarro e così, uno dopo l’altro, furono distrutti dal preciso fuoco tedesco.
Intorno alle 16:00, i vertici militari italiani ancora presenti nella Capitale (nessuno dei quali si degnò di avvicinarsi soltanto alle zone dei combattimenti), convennero finalmente (!) che gli angloamericani non sarebbero mai giunti in tempo per evitare la presa di Roma da parte tedesca, e che ogni ulteriore resistenza a quel punto poteva solo aumentare la sofferenza per la città e i suoi abitanti.
Venne quindi inviata al comando germanico una comunicazione, nella quale si offriva la resa definitiva di tutte le truppe combattenti italiane.
Quando a Porta San Paolo giunge la notizia, la resistenza si affievolì e i difensori furono sospinti indietro, verso il colle Testaccio e sull’Aventino, dove molti si arresero ai tedeschi.
Nonostante la notizia della resa della Capitale circolasse sempre più in fretta, in molte zone i combattimenti, seppur sporadici, continuarono ancora per qualche ora.
Nonostante la notizia della resa della Capitale circolasse sempre più in fretta, in molte zone i combattimenti, seppur sporadici, continuarono ancora per qualche ora.
Scontri si segnalarono in via Appia, in piazza Vittorio, in via Merulana, in via Gioberti, in Via Cavour e nella grande caserma di Castro Pretorio, mentre piazza Esedra somigliava sempre più ad un’enorme ospedale da campo a cielo aperto.
Poco più tardi, i tedeschi arrivarono dalle strade laterali e sfociarono in piazza dei Cinquecento, proprio davanti alla stazione Termini, dove si ebbero gli ultimi scontri della battaglia di Roma.
Attorno ad un treno del Regio Esercito i soldati italiani, spalleggiati da alcuni ferrovieri, tentarono l’ultima disperata resistenza, che cessò del tutto verso le 20:30.
Da quel momento in avanti Roma fu pressoché sotto il controllo della Wehrmacht.
I soldati germanici occuparono i ministeri e gli edifici pubblici più importanti; cannoni e mitragliatrici vennero piazzati nei punti più disparati della città, agli incroci, lungo le vie di accesso e sulle strade principali, mentre già si vedevano apparire sui muri i primi manifesti a firma di Kesselring che comunicavano alla popolazione le nuove “regole” alle quali essa doveva sottostare.
Alle 13:00 dell’11 settembre, anche la 3ª divisione panzergrenadieren fece ingresso a Roma, sfilando lungo via Veneto con le sue colonne di mezzi corazzati.
Gruppi isolati di soldati italiani continuarono qua e là una sporadica resistenza, ma la loro sorte fu quella di essere sopraffatti dalle meglio organizzate ed efficienti forze tedesche e sopportarne l’inevitabile rappresaglia.
Quando tutto finalmente cessò, era chiaro lo sfacelo che si era abbattuto sull’intero Regio Esercito, sgretolatosi in maniera più o meno rapida in tutti i suoi reparti a Roma così come nel resto d’Italia e nei territori occupati.
Il “colpo di grazia” alle aspirazioni di libertà dei romani arrivò la sera del 12, quando la radio annunciò che un riuscito blitz da parte di paracadutisti tedeschi aveva portato alla liberazione di Benito Mussolini dalla sua prigione del Gran Sasso.
L’armistizio portò ai tedeschi un bottino non indifferente: 1.255.660 fucili, 33.383 mitragliatrici, 9.986 pezzi di artiglieria, 970 mezzi corazzati, 4.553 aerei, 15.500 automezzi, 28.600 tonnellate 970 mezzi corazzati, 4.553 aerei, 15.500 automezzi, 28.600 tonnellate di munizioni e 123.114.000 litri di benzina. Il generale Jodl, Capo di Stato Maggiore di Hitler, ebbe poco più tardi a dire che questo era “il più grosso servigio mai reso dall’Italia al suo alleato tedesco”.
In quei tragici giorni furono disarmate dai tedeschi ben 51 divisioni del Regio Esercito al completo (molte altre parzialmente) e presi prigionieri 574.000 soldati italiani, di cui ben 24.000 ufficiali.
Lunedì 13 settembre tutto era finito.
Le porte del Vaticano vennero riaperte dopo che, per sicurezza, erano state chiuse durante gli scontri; ma sulla linea di demarcazione tra lo Stato Pontificio e l’Italia sostavano sentinelle tedesche.
Il Comando germanico requisì i grossi alberghi di Via Veneto e isolò la zona con filo spinato e militari di guardia.
Roma era in mano tedesca e il rumore degli stivali chiodati divenne il suono predominante in città.
Al momento del coprifuoco, tutti i portoni dovevano essere chiusi e chiunque fosse trovato fuori di casa veniva arrestato. Le strade erano deserte, l’oscurità e il silenzio calarono su quella che era stata un tempo l’orgogliosa Capitale d’Italia. Era iniziata la lunga notte di Roma.
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