I rapporti con gli alleati tedeschi, il freddo che arrivava a 40 gradi sotto zero, la mancanza di cibo e riposo. E la costante paura di essere braccati dai russi. La ritirata degli italiani in Russia si trasformò in un incubo.
Ugo Zappa rammenta che in quella quotidiana lotta per la sopravvivenza ci si misero d’intralcio anche gli alleati: «Nella lunga colonna di uomini e automezzi i tedeschi si mischiavano agli italiani. E non sempre la convivenza era facile. I camion che avrebbero dovuto trasportare i feriti spesso erano occupati da tedeschi sani, che con il calcio del fucile impedivano agli italiani di salire. Io riuscii ad appollaiarmi sul triangolo di aggancio tra la motrice e il rimorchio. Feci un po’ di strada così, ma presto mi resi conto che mi si stavano congelando i piedi. Ritornai perciò a camminare. Quella notte, nel fienile in cui mi rifugiai, ricordo le pulci che mi tormentavano: ’ste disgraziate al freddo non si sentivano, ma non appena ci si rintanava al caldo cominciavano a trottare su tutto il corpo. L’indomani ripresi il cammino, fra immense distese di neve, con punte di 40 gradi sotto zero, tra file di cadaveri ai bordi della pista. Molti furono uccisi dall’illusione di “scaldarsi” con un po’ di cognac. Un sergente ci aveva raccomandato di mischiarlo sempre con l’acqua. Ma quelli che non seguirono il consiglio morirono seduti sui loro zaini, ad aspettare che gli passasse la sbronza».
Anche Giovanni Gotta, classe 1918, partito da Melazzo (Al) nella Divisione Ravenna, ebbe uno scontro ravvicinato con gli alleati. «Eravamo in un’isba a passare la notte e all’improvviso sono arrivati dei soldati tedeschi che ci hanno ordinato di andare a dormire fuori. Per qualche ragione quel posto spettava a loro. Non c’ho più visto: ho preso il moschetto e in dialetto piemontese gli ho gridato che li avrei ammazzati come scarafaggi se non se ne fossero andati. Quelli, vedendo che la situazione si stava scaldando, hanno girato i tacchi».
SACRIFICIO ESTREMO
Per Marcello Biaggio, alpino di Colle Umberto (Tv) oggi ottantottenne, fu determinante l’aiuto della popolazione civile: «Nel lungo viaggio verso casa ci fu anche chi fu costretto a rubare ai morti stivali e indumenti: i nostri non bastavano a respingere il freddo della steppa. Pativamo così tanto che per sopravvivere alla notte ci rifugiavamo nelle isbe russe dove cercavamo anche di racimolare quanto più cibo possibile. La maggior parte delle famiglie dava quel che poteva, forse perché avevano paura. Fatto sta che anche loro avevano ben poco di cui sfamarsi». Anche Umberto Battistella racconta delle incursioni dei soldati italiani nelle case russe: «Quando si entrava nelle isbe si chiedeva “Khleba! Khleba!” che significa “Pane!”. Ma quei poveretti non ne avevano neanche per loro, figuriamoci per noi».
Oggi che quelle pene sono lontane, questi uomini non la smetterebbero mai di raccontare, anche se costa loro fatica. «Morti durante il cammino ne ho visti tanti, troppi: a volte eravamo persino costretti a camminarci sopra. Non si poteva morire in quel modo: giovani di vent’anni lasciati lì, insepolti in terra straniera!» si commuove Battistella. «Di loro ora ci rimane solo un ricordo flebile, ma ancora vivo: certo soffriamo ogni volta che lo strappiamo dal cuore per comunicarlo agli altri. Ma lo facciamo ugualmente perché solo così il loro sacrificio non andrà mai perduto».
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