A dicembre le forze russe decisero una grande controffensiva e ruppero il fronte sul Medio Don. Gli unici a resistere, sull'Alto Don furono gli alpini. Tutto il resto delle truppe ripiegarono in ritirata. Finché non cedettero anche gli alpini. Poi l'ultima eroica battaglia di Nikolajevka in cui gli italiani ruppero l'ultimo blocco sovietico riuscendo a proseguire la ritirata.
Il caporalmaggiore di Codognè (Tv) Evaristo Barazza, classe 1920, inquadrato nella “Julia”, che già aveva combattuto in Grecia e in Albania, sa di essersela cavata per un colpo di fortuna. «Mangiare? Era un miraggio. Si riusciva solo se si aveva la buona sorte di passare vicino a qualche isba o a qualche ricovero, dove trovavamo patate, crauti o piccole mele sotto aceto. Chi non era così fortunato rimaneva là, nel bianco infinito della morte. In quella lunga ritirata io mi sono salvato perché un giorno ho trovato una borraccia piena di miele che mi ha dato l’energia necessaria per andare avanti. Figurarsi che lì era faticoso anche respirare, tanto l’aria era fredda: per farlo ci mettevamo un pezzo di coperta in faccia. Questo finché non arrivammo a Nikolajevka, quando i nostri ufficiali ci dissero: “Tenetevi pronti perché bisognerà fare un assalto alla città”. In realtà quel giorno il nostro comandante girò in largo e ci portò ad aggirare le forze russe. D’altronde con cosa potevamo combattere? Non avevamo più né fucili né pistole, solo cannoni che a quel punto però erano diventati inservibili».
“TRIDENTINA” AVANTI!
Alle porte di Nikolajevka c’era anche Augusto Caliaro, alpino veneto, partito ventenne nel 1942 nella “Tridentina”, 6° Battaglione Verona: «Il nostro generale, Luigi Reverberi, ci incitò a entrare in città: quando l’abbiamo fatto non si potevano contare i morti. Ora come allora l’unica domanda che mi rimane in testa è: perché tanta carneficina?».
Anche Celeste Polito ricorda l’irruzione della “Tridentina”: «Grazie a quella divisione, che era ancora equipaggiata e la più in forma, abbiamo sostenuto il combattimento a Nikolajevka e verso sera siamo potuti entrare in paese e soccorrere i feriti. Si sentivano le loro grida e i lamenti e poiché era già notte fonda li abbiamo ammassati nelle case. Ma la desolazione è stata enorme il mattino dopo: i molti feriti che non potevano camminare dovevano essere abbandonati e loro gridavano e chiamavano la mamma, la moglie e i figli, dicendo: “Non ci rivedremo più!”».
A PIEDI.
Rotto il blocco di Nikolajevka i soldati italiani continuarono la lunga marcia verso casa nella steppa innevata. «La mantellina che avevamo in dotazione si accorciava a vista d’occhio: ogni giorno ne tagliavo una striscia per rifare le fasce da mettere sulle gambe, sotto al ginocchio. Le scarpe le avevo buttate via quasi subito perché facevano entrare l’acqua e i piedi si gonfiavano. Così li ho avvolti in un pezzo di coperta e camminando in quel modo ho evitato di farli congelare» racconta Umberto Battistella, classe 1920, arrivato in Russia da San Michele di Piave (Tv) come conducente di mulo nel 3° Reggimento di artiglieria da montagna della Divisione Julia.
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