Cronologia degli eventi

lunedì 4 luglio 2011

I reduci dell'Armir

Nel 1942 Hitler chiese a Mussolini un ulteriore appoggio nell'invasione della Russia. Furono mandate nuove divisioni, anche alpine: in tutto 230 mila uomini.

Ma il mestiere della guerra furono costretti a impararlo in fretta anche i “bocia”. «Il mio primo giorno in trincea? È stato memorabile» racconta Ugo Zappa, fante lombardo partito ventunenne per la Russia il 20 settembre del 1942, inquadrato nel 37° Reggimento fanteria, Divisione Ravenna. «Appena arrivato ho cercato di orientarmi in quei lunghi fossati profondi circa due metri che si intrecciavano tra di loro e terminavano in piccole caverne rivestite di tronchi, riempite con rudimentali letti a castello: le nostre “camere da letto”. Poi mi sono fatto coraggio e mi sono affacciato al bordo della trincea guardandomi attorno: eravamo piazzati nella steppa piena di neve, davanti c’era il fiume Don, tutto gelato. Quando arrivò l’imbrunire i russi cominciarono a mandare canzonette italiane a tutto volume: ci invitavano ad arrenderci illustrando la stupenda vita che facevano i prigionieri di guerra. Ma mi sono accorto davvero di essere in trincea quando mi hanno dato un pezzo di postazione da controllare e i russi hanno iniziato a sparare: sparavano i miei compagni e sparacchiavo anch’io. A un certo punto le acque si sono calmate e mi hanno dato finalmente il cambio: sono entrato nel mio tugurio, mi sono spogliato e coricato a letto. A svegliarmi poco dopo sono state invece raffiche di fucili, grida e ordini. Ed è qui che ho imparato la mia prima grande lezione: mai togliersi i vestiti, neanche per riposare!».
DIVISI DA UN FIUME
Celeste Polito, classe 1922 di Farra d’Alpago (Bl), e i suoi compagni arrivarono al fronte con un compito preciso: «La mia divisione, la “Vicenza”, doveva dare il cambio agli alpini della “Tridentina” che furono spostati più a nord. Quando arrivammo trovammo perciò le trincee, i camminamenti e anche qualche piccolo bunker che gli alpini avevano già fatto e che noi abbiamo continuato ad ampliare. I giorni e le notti passavano un po’ a scavare e un po’ a fare la guardia; cibo e munizioni arrivavano attraverso i camminamenti, di sera o durante la notte perché di giorno era pericoloso uscire allo scoperto: una volta una pallottola mi ha bucato la marmitta facendomi rovesciare tutto il brodo. Il peggio però era la notte, quando a turno si andava di pattuglia sulla riva del Don: si indossava la tuta bianca e si percorreva la sponda del fiume. Tra noi e i russi c’era solamente qualche cespuglio e il fiume gelato. In varie occasioni loro hanno tentato di passarlo, ma sono stati respinti. È andata avanti così fino al 17 dicembre, quando a Stalingrado i russi hanno rotto la linea e noi abbiamo ricevuto l’ordine di ripiegare e concentrarci a Rostov».

SPACCIATI
Era iniziata la massiccia controffensiva russa, quella che i generali sovietici avevano chiamato Operazione Piccolo Saturno. Da quel momento tutto cambiò. Continua Polito: «A Rostov ci siamo riuniti e abbiamo formato una colonna alla quale, più avanti, si sono aggiunti tedeschi, rumeni e polacchi. Di lì è cominciata la grande ritirata: una colonna di cui non si vedeva la fine. Si camminava giorno e notte, ci si fermava solo qualche ora nei paesi abbandonati, cercando di trovare qualcosa da mangiare. Poi c’erano i nostri muli: qualcuno moriva e così si recuperava qualche pezzo di carne; approfittando delle case o dei pagliai che bruciavano riscaldavamo alla meglio qualche pezzo di ciò che avevamo trovato e si metteva nello zaino il resto. In tutto ciò gli scontri a fuoco erano continui. Un giorno, al calare della sera, hanno mitragliato la colonna e un compagno che camminava al mio fianco è stato colpito da una pallottola alla gola. È cascato a terra, si è rialzato e mi ha detto: “Polito, addio!” afflosciandosi su se stesso. D’istinto io mi sono buttato nella neve e le pallottole mi hanno sfiorato così da vicino da bucarmi lo zaino che avevo sulle spalle e dentro il quale tenevo come un tesoro due scatolette e un pezzo di pane di segale nero, tutte le mie provviste».

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